LA CORTE MILITARE DI APPELLO

    Ha   emesso   la   seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale
n. 168/2004  R.G.  nei  confronti  di:  Calderoni Michele, nato il 26
novembre  1984  a  Gravina  di Puglia (Bari) ivi residente in via San
Sebastiano, 31. Militare V.F.A. E.I. Libero.
    In  seguito  all'appello  proposto  dal p.g.m. presso la C.m.a. -
Sezione  distaccata  di  Verona,  in  data 31 agosto 2004, avverso la
sentenza  n. 40/2004  emessa il 13 luglio 2004 dal Tribunale Militare
di  Verona con la quale, per il reato di Furto militare» (articoli 2,
30, comma 1 c.p.m.p.), veniva assolto per non aver commesso il fatto.
    La  Corte,  nell'udienza camerale del 16 marzo 2006, nel giudizio
di  appello  introdotto  dal  gravame  del  P.G.M. in sede avverso la
sentenza  con  la  quale  il  Tribunale militare di Verona ha assolto
Calderoni  Michele  dall'ascrittogli  reato  di  furto  militare,  ha
pronunciato la seguente ordinanza.
    Sentito  il  P.G.M. che ha sollevato la questione di legittimita'
costituzionale,  per  violazione  degli  articoli 3, 111 e 112 Cost.,
dell'art.  1  della  recente legge 20 febbraio 2006, n. 46, in vigore
dal  9 marzo 2006, nella parte in cui ha modificato l'art. 593 C.p.p.
ed  abolito  la  facolta'  del Pubblico Ministero di proporre appello
avverso le sentenze di proscioglimento;
    Sentita  la  difesa dell'imputato che ha chiesto la dichiarazione
di  manifesta  infondatezza  della eccepita questione di legittimita'
costituzionale.

                            O s s e r v a

    Il   presente  giudizio  di  gravame  trae  origine  dall'appello
presentato  dalla  procura  generale  militare  in  sede  avverso  la
sentenza,  datata  13 luglio 2004, con la quale il Tribunale militare
di  Verona  ha  assolto  Calderoni  Michele dall'ascrittogli reato di
furto militare per insussistenza del fatto.
    L'atto di appello sopra indicato si presenta provvisto di tutti i
requisiti  di  ammissibilita'  richiesti  dalla disciplina vigente al
momento della sua presentazione.
    Ai  sensi di quanto disposto dall'art. 10 della legge 20 febbraio
2006,   n. 46,  il  presente  giudizio  di  gravame  e'  destinato  a
concludersi  con  una  ordinanza di inammissibilita' dell'appello, in
quanto   detta  norma  ha  disposto  la  applicabilita'  della  nuova
disciplina  ai  procedimenti  in  corso  e prescritto che ai medesimi
debba porsi fine, salvo la possibilita' di un ricorso per cassazione,
con  un  atto  di  declaratoria  di  inammissibilita' del giudizio di
gravame.
    Di  conseguenza  appare  evidente  la  rilevanza  del prospettato
dubbio  di illegittimita' costituzionale, in ragione del fatto che la
possibilita'  di  definire  il  presente processo con una statuizione
diversa  dalla  specifica  ordinanza  di inammissibilita' contemplata
dalla  disposizione  transitoria e' preclusa dalla nuova formulazione
dell'art.  593 (quale modificata dall'art. 1 della legge n. 46/2006),
di cui si sospetta il contrasto con alcune norme della Costituzione.
    Le  eccezioni  di  incostituzionalita' che si andranno a proporre
investono  direttamente  la disciplina «a regime» dettata dalla legge
n. 46/2006,  ossia la regola della inappellabilita' delle sentenze di
proscioglimento  da  parte del Pubblico Ministero; ma e' evidente che
il  loro  accoglimento  travolgerebbe anche la disciplina transitoria
dettata  per gli appelli gia' proposti, che ha la sua ragion d'essere
proprio nella sopravvenuta introduzione di quella regola.
    Non   manifesta  infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale.
    La  recente  legge 20 febbraio 2006, n. 46, in vigore dal 9 marzo
2006,  modificando  l'art. 593  c.p.p.,  ha  abolito  la facolta' del
pubblico  ministero  di  proporre  appello  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento, salvo ipotesi marginali («nuove prove sopravvenute o
scoperte  dopo  il  giudizio  di  primo grado») che non ricorrono nel
presente caso.
    Contro  tali  sentenze, dunque, l'Ufficio del p.m. puo' di regola
proporre il solo ricorso per cassazione, del quale - al contempo - la
nuova  legge  ha ampliato i presupposti di rituale instaurazione (con
la modifica delle lettere d ed e dell'art. 606 C.p.p.).
    E'   convincimento   di   questo  giudice  che  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  della  legge  n. 46/1996,
sollevata  dal  rappresentante  della  procura  generale  militare in
riferimento  agli  articoli  3, 111 e 112 della Carta costituzionale,
non sia manifestamente infondata.
    Violazione delIart. 111, comma 2, prima parte, della Cost.
    Il  primo  e  fondamentale  profilo  di  contrasto  fra  il nuovo
art. 593  C.p.p.  e  le  (norme costituzionali, riguarda il principio
della   parita'   delle   parti   nel   processo  penale,  consacrato
nell'art. 111,   comma   2,   Cost.,   rispetto   al   quale   appare
inconciliabile  una  disciplina  dell'appello  che  introduce pesanti
elementi  di turbativa nell'equilibrio del contraddittorio ed assegna
alle  parti  prerogative differenziate al punto tale che una soltanto
di esse puo' vedere soddisfatto il suo interesse sostanziale.
      Che questa sia la situazione scaturente dalla legge 20 febbraio
2006  n. 46  risulta, palese ove si consideri che in essa i poteri di
appello  dell'imputato  e  del  p.m.  sono  connotati  da una formale
coincidenza  (facolta' per entrambi di impugnare la condanna; divieto
per  entrambi  di impugnare il proscioglimento) che pero' si traduce,
data  la  contrapposizione  dei rispettivi interessi, in una radicale
sperequazione.   L'imputato,   infatti,   perde  la  possibilita'  di
impugnare nel merito la sentenza di primo grado per aspetti del tutto
platonici (l'adozione di una formula di proscioglimento piuttosto che
un'altra;  l'assoluzione ai sensi del primo piuttosto che del secondo
comma dell'art. 530 C.p.p.) e la conserva nei casi in cui la sentenza
leda  in  modo concreto i suoi diritti di liberta' e di onorabilita'.
Il   rappresentante   della   pubblica   accusa,  per  contro,  resta
legittimato  all'appello  nei  soli  casi  in cui la pretesa punitiva
abbia  trovato  essenziale  realizzazione  e  con riguardo ad aspetti
secondari   della   medesima   (la   qualificazione   del  fatto;  la
quantificazione   della   pena);  mentre  viene  privato  di  analoga
legittimazione  nelle, di gran lunga piu' significative, evenienze in
cui quella pretesa sia stata totalmente sconfessata.
    Il  dubbio  di legittimita' costituzionale si giustifica anche in
relazione  a  quanto  affermato  dalla Corte costituzionale (sentenza
n. 363/1991  e  ordinanze successive tra cui n. 421/2001) a proposito
dei  limiti oggettivi all'appello del pubblico ministero nel giudizio
abbreviato  (inappellabilita'  delle  sentenze  di  condanna  che non
modifichino il titolo del reato).
    Si e' infatti sottolineato che detta disciplina non contrasta con
i  canoni di ragionevolezza e non viola il principio della parita' in
quanto:
        a)   costituisce  il  «corrispettivo»  in  funzione  premiale
(unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento
da  parte  dell'imputato,  attraverso  una  opzione  processuale  che
favorisce una piu' rapida definizione dei processi;
        b)   concerne   situazioni   in   cui   ha  comunque  trovato
realizzazione  la  pretesa  punitiva,  rimanendo del tutto intatta la
potesta' di impugnazione delle sentenze di assoluzione.
    Le  ragioni  giustificative  dei limiti, peraltro contenuti, alla
facolta'  di  appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato,
ritenute   valide   dalla   Corte   costituzionale,  sono  totalmente
inesistenti nella nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p.
    L'odierno    divieto   di   appello   contro   le   sentenze   di
proscioglimento,  infatti, mutila le prerogative della parte pubblica
in  modo  generalizzato  e proprio nell'aspetto piu' saliente del suo
interesse  a  impugnare,  senza  che  sia  individuabile alcun valore
costituzionale   in   grado  di  bilanciare  e  di  legittimare  quel
sacrificio.
    Inoltre, e come documentano i lavori preparatori della disciplina
in  oggetto,  la  ratio  della  riforma  non  risiede in finalita' di
deflazione  o  di semplificazione processuale (che, semmai, avrebbero
potuto  consigliare  limiti  ai poteri di appello del p.m. avverso le
sentenze   di   condanna,   speculari   a  quelli  posti  all'appello
dell'imputato  contro  il  proscioglimento),  bensi' in una declamata
opzione  di  generale politica legislativa, secondo cui neutralizzare
le  possibilita'  di  reazione  dell'organo  dell'accusa,  contro  la
sentenza  assolutoria  che  ritenga  ingiusta,  risponderebbe  a'  un
diritto dell'imputato a non essere riconosciuto colpevole se non dopo
due giudizi di merito conformi.
    Sennonche'   l'esigenza   della  c.d.  «doppia  conforme»  sembra
estranea alla nozione di «diritto al doppio grado di giurisdizione in
materia  penale»  riconosciuto dalle Carte internazionali sui diritti
dell'uomo,  posto  che  nel  documento  in  cui  quel diritto e' piu'
chiaramente  enunciato  (art. 2  del  VII Protocollo addizionale alla
Convenzione  europea  per  la salvaguardia dell'uomo e delle liberta'
fondamentali,  fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984 e ratificato in
Italia  con legge. 9 aprile 1990, n. 98) viene espressamente prevista
la  possibilita'  che  un  soggetto  venga  «dichiarato  colpevole  e
condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento» ed
in  relazione a tale evenienza si contempla la necessita' che vengano
garantiti:  1)  il  diritto  di ricorrere in cassazione per errori in
giudicando  o in procedendo; 2) il diritto ad un ulteriore riesame di
merito laddove detti errori siano stati accertati.
    Ritiene  di  conseguenza  la corte, per concludere sul punto, che
l'assetto  delineato  dalla  nuova  legge  appaia in contrasto con il
principio  di equa considerazione delle parti processuali, in ragione
del fatto che e' coessenziale alla fisiologica dialettica processuale
che   ogni   parte   del   processo  possa  mantenere  «le  posizioni
originariamente  assunte  e quindi, ove la sentenza non abbia dato ad
esse  piena  soddisfazione,  impugnare la decisione stessa; ed e' qui
finche'  si  colloca  l'appello  principale»  (Corte  costituzionale,
sentenza n. 280/1995).
    2. - Violazione dell'art. 112 Cost.
    La  Corte  cost., pur avendo affermato (sentenza n. 177 del 1971)
che  il  potere  di  impugnazione e' un estrinsecazione ed un aspetto
dell'azione  penale  ed  un  atto conseguente al suo promovimento, ha
tuttavia  escluso  (sentenza  n. 363  del  1991; ordinanza n. 241 del
2001)  che  esso  debba  configurarsi  in modo simmetrico rispetto al
diritto di difesa dell'imputato.
    La  stessa Corte costituzionale ha in seguito (sentenza n. 98 del
24  marzo  1994)  precisato  che  «la  configurazione  dei poteri del
pubblico   ministero»,   ancorche'  affidata  alla  legge  ordinaria,
potrebbe  essere  censurata  per irragionevolezza se i poteri stessi,
nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all'assolvimento dei
compiti previsti dall'art. 112 Cost.».
    La  situazione-limite astrattamente prospettata dalla Corte cost.
sembra  essersi  puntualmente  inverata  nella disciplina predisposta
dall'art.  1  della  legge n. 46/2006, che pone un limite generale ed
indifferenziato alla possibilita' di appello del rappresentante della
Pubblica  accusa avverso le sentenze che abbiano rigettato la pretesa
punitiva  e  gli  impedisce  di  richiedere  al  giudice superiore il
riesame  dei  fatti  e delle valutazioni di merito poste a fondamento
delle stesse.
    Nel  nuovo statuto dei limiti oggettivi all'impugnazione del p.m.
infatti,  viene pregiudicato il nucleo essenziale del precetto di cui
all'art.   112  della  Costituzione,  il  quale,  nell'attribuire  al
pubblico  ministero  l'esercizio  dell'azione  penale,  configura  un
potere  che  legittimamente puo' cedere solo di fronte ad esigenze di
preminente  rilievo  costituzionale  (sentenza  Corte cost. n. 98 del
1994).
    E  cio'  che non sembra ravvisabile nella disciplina di specie e'
proprio  la esigenza di tutelare un preminente valore costituzionale,
posto   che   non  appare  condivisibile  l'idea  che  la  abolizione
dell'appello  contro  le  sentenze di proscioglimento costituisca una
delle  necessita'  imposte  dall'art.  24  della Costituzione e posto
altresi'   che,   secondo   il   costante  insegnamento  della  Corte
costituzionale, il principio della «parita' delle armi» tra accusa ed
imputato   va   modulato  «non  solo  e  tanto  sull'identita'  delle
rispettive  posizioni,  quanto  sul  raccordo  con  l'esigenza di non
comprimere  poteri e facolta' dell'imputato riconducibili al precetto
dell'art.  24  della  Costituzione»  (Corte cost., sentenza n. 94 del
1994).
    Parimenti  non  sussiste alcuna di quelle ragioni per le quali si
sono  ritenuti  costituzionalmente legittimi i circoscritti limiti al
potere  di  appello  della  parte  pubblica  nel giudizio abbreviato,
comunque,  ed allora, salvaguardato nelle possibilita' di reazione ad
una  sentenza  di  proscioglimento; limiti, vale ribadirlo, che hanno
trovato  la  loro  essenziale  giustificazione «nell'obiettivo di una
rapida  e  completa  definizione del processi svoltisi in primo grado
secondo  il  rito  alternativo di cui si tratta: rito che - sia pure,
oggi,  per  scelta  esclusiva  dell'imputato  - implica una decisione
fondata,  in primis sul materiale probatorio raccolto dalla parte che
subisce   la   limitazione   censurata,   fuori  dalla  garanzie  del
contraddittorio;»   (Corte   costituzionale,   sentenze  n. 421/2001;
347/2002; 165/2003).
    E'  infatti  evidente  che nel contesto della nuova disciplina la
esclusione  dell'appello  della  parte pubblica contro le sentenze di
proscioglimento  non  e'  piu'  circoscritta  a  riti processuali che
perseguano  l'obiettivo  del  minor  dispendio  di  tempo  ed energie
processuali  (connotati  essenziali  del  giudizio abbreviato - Corte
costituzionale,  sentenza  n. 115  del  2001)  e  riguarda  tutte  le
decisioni di proscioglimento emesse nel pieno rispetto della garanzia
del contraddittorio nella formazione della prova.
    Sicche'  ne  deriva,  in  uno con il dubbio di illegittimita' che
investe  il  principio  di  obbligatorieta'  della  azione penale, un
ulteriore dubbio in relazione al fondamentale principio della parita'
fra  accusa  e  difesa, il quale, pur non comportando necessariamente
l'identita'  tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli
dell'imputato  (o  del  suo  difensore),  richiede  comunque  che  la
diversita'  di  trattamento risulti giustificata «sia dalla peculiare
posizione  istituzionale  del  pubblico ministero, sia dalla funzione
allo   stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla  corretta
amministrazione  della  giustizia  (Corte  cost.  sentenza n. 363 del
1991).  Con  la fondamentale conseguenza che «in ogni caso il diverso
trattamento  riservato  al  pubblico ministero, per essere conforme a
Costituzione,  dovra'  trovare una ragionevole motivazione proprio in
quella  peculiare posizione o in quella funzione o in quelle esigenze
appena richiamate (Sentenza Corte costituzionale n. 363 del 1991).
    3. - Sul contrasto con l'art. 3 della Cost.
    Vanno poi segnalati i molteplici, e connessi, profili per i quali
la  disciplina  dell'art. 593  nuovo testo c.p.p., e conseguentemente
quella  transitoria  di  cui  all'articolo  della  legge  n. 46/2006,
violano altresi' i principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui
all'art. 3   Cost.,   introducendo   ingiustificate   disparita'   di
trattamento  fra situazioni e posizioni processuali che invece (anche
per  i  gia' richiamati principi di parita' tra le parti del processo
ed  obbligatorieta'  dell'azione penale) debbono essere collocate sul
medesimo  piano, sia pure con la ovvia considerazione delle finalita'
che ne contrassegnano i rispettivi ruoli.
    La previsione dell'appellabilita' da parte del pubblico ministero
delle  sentenze  di condanna e la pratica eliminazione della facolta'
di  appellare  le  sentenze  di  assoluzione,  infatti,  configura un
assetto  processuale  del  tutto irragionevole: si autorizza la parte
pubblica  a proporre impugnazione quando la pretesa punitiva e' stata
accolta e nel contempo si vieta simile legittimazione nella diversa e
piu'  significativa  ipotesi  in cui detta pretesa punitiva sia stata
totalmente rigettata.
    Si  tratta  di  un  profilo di manifesta incostituzionalita' gia'
rilevato dal Presidente della Repubblica nel messaggio di rinvio alle
Camere  del  20  gennaio  2006,  in  cui  testualmente si osserva «la
soppressione  dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa
della  disorganicita'  della  riforma,  fa si che la stessa posizione
delle  parti  nel  processo  venga  ad  assumere  una  condizione  di
disparita'  che  supera quella compatibilita' con la diversita' delle
funzioni  svolte  dalle  parti  stesse  nel  processo... Un ulteriore
incongruenza  della  nuova  legge  sta  nel  fatto  che  il  pubblico
ministero  totalmente  soccombente  non puo' proporre appello, mentre
cio'  gli  e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale,
avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta.».
    La  violazione  dei  suddetti  principi  costituzionali  (112 e 3
Cost.)  appare  ravvisabile  anche  in relazione a quella parte della
nuova disciplina che contempla un'ipotesi residuale di appello contro
la  sentenza  di  proscioglimento  da parte del pubblico ministero (e
dello  stesso  imputato: ma e' superfluo insistere sulla residualita'
di  tale  evenienza)  per  il  solo  caso  in cui, successivamente al
giudizio  di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove e
queste  appaiano  decisive  (art. 593,  comma  2,  nuovo  testo,  che
richiama   a  tale  fine  la  categoria  delle  prove  che,  a  mente
dell'art. 603  comma 2, giustificano la rinnovazione del dibattimento
in appello).
    Tale  ipotesi - introdotta dal Parlamento solo in sede di seconda
approvazione  della  legge,  a seguito del rinvio del primo testo per
«palese  incostituzionalita» da parte del Presidente della Repubblica
-  non  ha nulla a che vedere con l'appello inteso quale «gravame nel
merito»,  e  mutua  i  suoi lineamenti costitutivi dallo schema della
revisione,  con  la particolarita' di applicarsi solo nel caso (certo
di  non  frequente  incidenza  statistica)  in  cui  le  nuove  prove
sopravvengano  o siano scoperte entro il termine accordato alla parte
per  impugnare  la  sentenza  (quindici, trenta o massimo 45 giorni a
seconda   della   celerita'   del   giudice   nella  redazione  della
motivazione: artt. 544 e 585 c.p.p.).
    Ed  e'  appunto in tale limite massimo che si coglie il carattere
discriminatorio  della  norma,  ove  si rilevi che il proscioglimento
rimarra'  del  tutto  insindacabile  nel  merito,  benche' in ipotesi
affetto  dal  piu' grave errore di giudizio sulle prove preesistenti,
qualora nessuna nuova prova venga ad aggiungersi ad esse ed anche nel
caso  in cui una determinante prova di accusa, presente nel compendio
istruttorio,  sia  stata  del  tutto  trascurata (in cio' si registra
addirittura  un  arretramento rispetto a quanto consentito, alla luce
di  recenti e condivisibili orientamenti del giudice di legittimita',
nell'ambito del giudizio di revisione).
    4.  -  Violazione  del  principio  della  ragionevole  durata del
processo (art. 111, comma 2, ultima parte, Costituzione).
    Resta  da  osservare che i profili di incostituzionalita' sin qui
esaminati  non  possono  dirsi in alcun modo esclusi dal fatto che al
pubblico  ministero e' pur sempre consentito ricorrere per cassazione
contro   il  proscioglimento,  ed  anzi  -  per  effetto  della  gia'
richiamata  riformulazione  delle lett. d) ed e) dell'art. 606 p.p. -
in termini piu' ampi che in passato.
    In   primo   luogo   va   rilevato   che  la  nuova  formulazione
dell'art. 606,   per   quanto   indubbiamente  segni  un  tendenziale
ampliamento dei vizi deducibili col ricorso per cassazione, configura
pur  sempre  un  mezzo  di impugnativa «a critica vincolata»: laddove
invece  l'appello  propriamente  detto e' per definizione un mezzo di
gravame  a  critica  libera,  atto  a investire la sentenza nella sua
eventuale  intrinseca ingiustizia e nei piu' ampi limiti disciplinati
dall'art. 597, comma 1, c.p.p.
    Inoltre,  se  anche  per  assurdo  si  potesse  sostenere  che il
trasferimento  dalla  sede  dell'appello  a  quella  del  ricorso per
cassazione  non  ha  intaccato  le  possibilita'  di critica del p.m.
contro la sentenza di primo grado, si sarebbe comunque in presenza di
un  significativo  dubbio  di illegittimita' costituzionale, sotto il
profilo  della  violaziane del principio della ragionevole durata del
processo di cui all'art. 111, comma 2, ultima parte, Cost..
    Questa  corte non ignora le generali opzioni processuali che sono
alla base della disciplina introdotta dalla legge n. 46 del 2006, che
traggono   origine   dalla   piu'   volte   segnalata   anomalia  che
caratterizzava  il  previgente sistema, ove era consentito al giudice
di  gravame  di ribaltare la decisione di proscioglimento maturata ed
emessa   nel   puntuale   rispetto   dei  principio  di  oralita'  ed
immediatezza.  Anomalia  incisivamente  sottolineata  in  una recente
decisione  delle  Sezioni  unite  della  Corte  di cassazione, ove si
auspicava  la  necessita' di «ristrutturare sapientemente il giudizio
di  appello,  secondo  cadenze  e modalita' tali da precludere a quel
giudice  (che  di  regola  rimane estraneo alla formazione dialettica
della  prova)  di  ribaltare  il  costrutto logico della decisione di
proscioglimento  dell'imputato, all'esito di una mera rilettura delle
carte  del  processo e di un contraddittorio dibattimentale ex actis.
Nel senso, cioe', di qualificare in questo caso l'appello, ove non si
concluda  con la conferma dell'alternativa assolutoria, come giudizio
di  natura esclusivamente rescindente, cui debba seguire un rinnovato
giudizio  .. sul merito della responsabilita' dell'imputato, modulato
sui  binari  tracciati dalla sentenza di annullamento» (Cass. Sezioni
unite, sent. 45276 del 24 novembre 2003 (ud. 30 novembre 2003).
    La  disciplina  predisposta,  pero',  e'  andata molto oltre e si
presta a significativi dubbi di legittimita' costituzionale; non solo
per il fatto di avere sconvolto la geometria dei limiti del sindacato
di  legittimita',  come  imposto  dalla  Costituzione e disegnata dal
nuovo   codice   di   rito,  ed  avere  conseguentemente  compromesso
l'armonico   dispiegarsi   nel  sistema  processuale  della  funzione
nomofilattica  attribuita  alla suprema Corte (con conseguente dubbio
di legittimita' costituzionale anche in relazione all'art. 111, comma
7,   Cost.);   ma   anche   e   soprattutto  perche',  snaturando  la
conformazione  del  giudice  di  legittimita'  e trasformandolo in un
sostanziale  giudice  di  merito  con  competenza  estesa  all'intero
territorio  nazionale,  la  nuova  legge  ha  creato  le basi perche'
dinanzi  a  questo  giudice  confluiscano, con la marginale eccezione
delle  nuove  prove  sopravvenute  e  decisive, tutte le impugnazioni
avverso sentenze di proscioglimento. Cio' comportera' un ineluttabile
aumento  delle  pendenze dinanzi alla Suprema Corte ed un altrettanto
ineluttabile  aumento  dei tempi di definizione dei processi; eventi,
entrambi, direttamente conseguenti alla nuova disciplina e che non si
sarebbero  prodotti  nel  caso  il legislatore avesse attuato in modo
piu'  ragionevole  l'auspicio sopra indicato (rimodulando i caratteri
del  giudizio  di  gravame  e prevedendo, in caso di mancata conferma
della alternativa assolutoria, un aumento delle ipotesi di rinvio del
processo  al  giudice  di  primo  grado  o l'obbligatorio rinnovo del
dibattimento  in  appello  sul  tipo  di  quanto  previsto in caso di
erronea  dichiarazione  di  estinzione  del reato o di difetto di una
condizione del procedere).
    In  secondo  e connesso luogo, con la modifica in questione si e'
venuto  a  istituzionalizzare  uno schema processuale che, in caso di
annullamento  del  proscioglimento di primo grado, e tenuto conto del
carattere solo «rescindente» del ricorso di legittimita', consentira'
non  meno  di  cinque  gradi  di  giudizio  (primo grado; ricorso per
cassazione  del  p.m.;  nuovo  primo  grado;  appello  e  ricorso per
cassazione  dell'imputato contro l'eventuale condanna), in un sistema
che  non  richiede  costituzionalmente  neppure  il  secondo grado di
merito  ed  impone,  per  contro, di cadenzare i tempi processuali in
modo  da  consentire  la  definizione  della  regiudicanda  in  tempi
ragionevoli.
    La  negativa  incidenza di una siffatta moltiplicazione dei gradi
di giudizio sulla ragionevole durata del processo e', poi, accentuata
dal  fatto  di accompagnarsi al rischio di un'ennesima ingiustificata
lesione   degli   interessi   pubblici  e  privati  lesi  dal  reato.
Essa,infatti,  comporta per definizione un aumento della possibilita'
di  prescrizione  del  reato,  posto  che  il  nostro  ordinamento, a
differenza  di altri, non prevede un pieno effetto interruttivo delle
impugnazioni dell'imputato sul tempo necessario a prescrivere.
    E  cio'  a maggior ragione alla luce della recente modifica della
disciplina  di  cui  agli  artt. 157 ss. c.p., operata con la legge 5
gennaio  2005  n. 251,  della  quale  non  poteva  non tener conto il
legislatore  del  febbraio  2006,  proprio  ai  fini del rispetto del
canone costituzionale da ultimo invocato.
    Ne   deriva,   di   conseguenza,   un   ulteriore   dubbio  sulla
costituzionalita'  delle  nuove  norme,  posto che al principio della
ragionevole durata del processo arrecano un indubbio vulnus «le norme
procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non
sorrette  da  alcuna  logica  esigenza,  non  essendo  in  altro modo
definibile  la  durata  ragionevole  del  processo se non in funzione
della  ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso e
ne  determinano  i tempi» (Corte cost., sentenza n. 148 del 12 aprile
2005 (4 aprile 2005).
    Contrasto con l'articolo 111, comma 7, Cost.
    Le  osservazioni  sopra  esposte  introducono un nuovo profilo di
illegittimita' costituzionale, consistente nella violazione, da parte
della  norma  qui contestata (art. 1 legge n. 46/2006), del principio
generale  ricavabile dall'art. 111, comma 7, della Carta fondamentale
in materia del ricorso alla Corte suprema di cassazione.
    Il sistema previgente contemplava, in effetti, oltre all'appello,
la  facolta'  (per l'imputato e) per il,ubblico inistero di ricorrere
immediatamente  per cassazione contro la sentenza resa in primo grado
(art. 569, comma 1 c.p.p.).
    Si  trattava  di  una facolta' poco praticata in concreto, la cui
previsione poco o niente toglieva alla regola che vedeva nell'appello
il  mezzo  «tipico»  di  reazione  dell'accusa avverso le pronunce di
proscioglimento.
    E,  soprattutto,  si  trattava  di  una  facolta' ragionevolmente
esclusa  dalla  legge  (art. 569,  comma 3, c.p.p.) ogni qualvolta il
ricorrente  lamentasse  una delle violazioni previste alle lettere d)
ed  e)  dell'art. 606,  comma  1,  c.p.p., ossia deducesse la mancata
assunzione  di  una  prova decisiva oppure la mancanza o la manifesta
illogicita'  della  motivazione  della  sentenza. In tali ipotesi era
infatti  prevista  la  conversione del ricorso in appello, poiche' si
riteneva  che il giudice di merito di secondo grado fosse, sotto ogni
profilo  (anche  per  «specifica  formazione professionale»), il piu'
adatto  a valutare irregolarita' comportanti la parziale rinnovazione
dell'istruzione  dibattimentale  o  l'integrazione della parte motiva
della pronuncia del giudice a quo.
    Divenuta  regola  quella  che  era  l'eccezione,  non  ci si puo'
esimere dall'interrogarsi circa la congruita' del mezzo al fine anche
sotto  il  profilo  del  rispetto  dell'art. 111, comma 7, Cost., dal
momento che:
        da  un  lato, non e' certamente piu' sostenibile - quantunque
il  citato  art. 569,  comma  3, non sia stato modificato dalla legge
n. 46/2006  -  che  il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di
proscioglimento  possa  essere limitato nei vizi denunciabili, stante
l'impossibilita'  della  sua  conversione in un mezzo di impugnazione
(l'appello, appunto) non piu' ammesso;
        dall'altro,  la  possibilita'  che  la  Corte  di cassazione,
divenuta   giudice  unico  delle  sentenze  di  proscioglimento,  sia
chiamata  a  «rivalutare» le risultanze probatorie, o ad integrare la
motivazione  della  sentenza  anche  con  riguardo  a specifici atti,
appare  in  stridente  contrasto  con  il  ruolo  di ultima e suprema
istanza  giurisdizionale»  che caratterizza detto giudice [cfr. Corte
cost.  (ord.),  5  maggio 1983, n. 131, in Giurspr. costit., 1983, 1,
787].
    Non  sembra  affatto contraddire la tesi qui sostenuta - tesi che
ha  un illustre punto di riferimento nel messaggio in data 20-1-2006,
con  cui  il Presidente della Repubblica ha restituito alle Camere il
testo  del  disegno  di  legge  poi  divenuto la novella n. 46/2006 -
quanto  a  suo  tempo  affermato  dalla  Consulta  a  proposito delle
funzioni  del  giudice di legittimita'; ossia non essere in contrasto
con  la  Costituzione,  e segnatamente con il disposto dell'art. 111,
comma  2,  di  questa  (secondo  il  testo anteriore alla riforma del
1999), che alla suprema Corte romana siano affidati compiti ulteriori
rispetto  a  quelli  «che tradizionalmente (...) e necessariamente la
caratterizzano, consistenti nel giudicare dei ricorsi «per violazione
di  legge» avverso le sentenze (...)» (Corte cost., 12/19 giugno1974,
n. 184, in Giust. pen. 1974, I, 421).
    La  suddetta  pronuncia  della Corte costituzionale riguarda(va),
infatti,  una  modifica  apportata  nel 1974 all'art. 538 dell'allora
vigente  codice  di  rito  penale, in materia di rettificazione degli
errori non determinanti annullamento.
    In  tal  caso,  invero, il giudice delle leggi aveva «salvato» le
funzioni  correttive  di merito attribuite alla Cassazione, ma si era
trattato  di  un'ipotesi  del  tutto  marginale,  in cui era comunque
escluso    che   si   potessero   «assumere   nuove   prove   diverse
dall'esibizione  di  documenti»  (art. 538, ult. comma, c.p.p. 1930):
un'ipotesi, insomma, neppure paragonabile, per importanza e «impatto»
sul  sistema,  al  ruolo  di giudice (anche) di merito che il supremo
Collegio  si  trovera' a ricoprire una volta trasformato - ex art. 2,
legge  n. 46/1006  -  in giudice unico ed esclusivo delle rimostranze
contro le sentenze liberatorie di primo grado.
    In  definitiva,  ad  avviso di questo giudice, dalla natura della
Corte  suprema  di cassazione quale supremo ed ultimo presidio contro
le  possibili  violazioni  di  legge  ascrivibili  alle sentenze e ai
provvedimenti  in materia di liberta' personale dei giudici di merito
(art. 111,  comma  7,  Cost.) non deriva giocoforza che alla medesima
non  possano essere attribuite anche funzioni diverse, che comportino
la necessita' di esaminare parte degli atti del procedimento.
    Siffatta  «deviazione»,  tuttavia,  deve  essere  ragionevolmente
contenuta  e  non  deve alterare in misura significativa la struttura
dell'istituto del ricorso di legittimita'.
    Ebbene, la ragionevolezza, particolarmente in punto di efficacia,
di  un  sistema  del  genere  a  fronte  di  quello  antecedente, che
consentiva  al p.m. di adire il superiore giudice di merito (la Corte
di appello) per far valere l'ingiustizia della decisione assolutoria,
si commenta da se'; soprattutto ove si rifletta sulle conseguenze, si
ribadisce,  dell'accentramento  in  un  unico  giudice  di cause che,
avendo  come base conoscitiva l'intero fascicolo processuale, possono
anche comportare la necessita' di «rileggere» ab imis fundamentis gli
atti danti causa del vizio denunciato.