LA CORTE MILITARE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 168/2004 R.G. nei confronti di: Calderoni Michele, nato il 26 novembre 1984 a Gravina di Puglia (Bari) ivi residente in via San Sebastiano, 31. Militare V.F.A. E.I. Libero. In seguito all'appello proposto dal p.g.m. presso la C.m.a. - Sezione distaccata di Verona, in data 31 agosto 2004, avverso la sentenza n. 40/2004 emessa il 13 luglio 2004 dal Tribunale Militare di Verona con la quale, per il reato di Furto militare» (articoli 2, 30, comma 1 c.p.m.p.), veniva assolto per non aver commesso il fatto. La Corte, nell'udienza camerale del 16 marzo 2006, nel giudizio di appello introdotto dal gravame del P.G.M. in sede avverso la sentenza con la quale il Tribunale militare di Verona ha assolto Calderoni Michele dall'ascrittogli reato di furto militare, ha pronunciato la seguente ordinanza. Sentito il P.G.M. che ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale, per violazione degli articoli 3, 111 e 112 Cost., dell'art. 1 della recente legge 20 febbraio 2006, n. 46, in vigore dal 9 marzo 2006, nella parte in cui ha modificato l'art. 593 C.p.p. ed abolito la facolta' del Pubblico Ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento; Sentita la difesa dell'imputato che ha chiesto la dichiarazione di manifesta infondatezza della eccepita questione di legittimita' costituzionale. O s s e r v a Il presente giudizio di gravame trae origine dall'appello presentato dalla procura generale militare in sede avverso la sentenza, datata 13 luglio 2004, con la quale il Tribunale militare di Verona ha assolto Calderoni Michele dall'ascrittogli reato di furto militare per insussistenza del fatto. L'atto di appello sopra indicato si presenta provvisto di tutti i requisiti di ammissibilita' richiesti dalla disciplina vigente al momento della sua presentazione. Ai sensi di quanto disposto dall'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, il presente giudizio di gravame e' destinato a concludersi con una ordinanza di inammissibilita' dell'appello, in quanto detta norma ha disposto la applicabilita' della nuova disciplina ai procedimenti in corso e prescritto che ai medesimi debba porsi fine, salvo la possibilita' di un ricorso per cassazione, con un atto di declaratoria di inammissibilita' del giudizio di gravame. Di conseguenza appare evidente la rilevanza del prospettato dubbio di illegittimita' costituzionale, in ragione del fatto che la possibilita' di definire il presente processo con una statuizione diversa dalla specifica ordinanza di inammissibilita' contemplata dalla disposizione transitoria e' preclusa dalla nuova formulazione dell'art. 593 (quale modificata dall'art. 1 della legge n. 46/2006), di cui si sospetta il contrasto con alcune norme della Costituzione. Le eccezioni di incostituzionalita' che si andranno a proporre investono direttamente la disciplina «a regime» dettata dalla legge n. 46/2006, ossia la regola della inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte del Pubblico Ministero; ma e' evidente che il loro accoglimento travolgerebbe anche la disciplina transitoria dettata per gli appelli gia' proposti, che ha la sua ragion d'essere proprio nella sopravvenuta introduzione di quella regola. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. La recente legge 20 febbraio 2006, n. 46, in vigore dal 9 marzo 2006, modificando l'art. 593 c.p.p., ha abolito la facolta' del pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, salvo ipotesi marginali («nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado») che non ricorrono nel presente caso. Contro tali sentenze, dunque, l'Ufficio del p.m. puo' di regola proporre il solo ricorso per cassazione, del quale - al contempo - la nuova legge ha ampliato i presupposti di rituale instaurazione (con la modifica delle lettere d ed e dell'art. 606 C.p.p.). E' convincimento di questo giudice che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge n. 46/1996, sollevata dal rappresentante della procura generale militare in riferimento agli articoli 3, 111 e 112 della Carta costituzionale, non sia manifestamente infondata. Violazione delIart. 111, comma 2, prima parte, della Cost. Il primo e fondamentale profilo di contrasto fra il nuovo art. 593 C.p.p. e le (norme costituzionali, riguarda il principio della parita' delle parti nel processo penale, consacrato nell'art. 111, comma 2, Cost., rispetto al quale appare inconciliabile una disciplina dell'appello che introduce pesanti elementi di turbativa nell'equilibrio del contraddittorio ed assegna alle parti prerogative differenziate al punto tale che una soltanto di esse puo' vedere soddisfatto il suo interesse sostanziale. Che questa sia la situazione scaturente dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46 risulta, palese ove si consideri che in essa i poteri di appello dell'imputato e del p.m. sono connotati da una formale coincidenza (facolta' per entrambi di impugnare la condanna; divieto per entrambi di impugnare il proscioglimento) che pero' si traduce, data la contrapposizione dei rispettivi interessi, in una radicale sperequazione. L'imputato, infatti, perde la possibilita' di impugnare nel merito la sentenza di primo grado per aspetti del tutto platonici (l'adozione di una formula di proscioglimento piuttosto che un'altra; l'assoluzione ai sensi del primo piuttosto che del secondo comma dell'art. 530 C.p.p.) e la conserva nei casi in cui la sentenza leda in modo concreto i suoi diritti di liberta' e di onorabilita'. Il rappresentante della pubblica accusa, per contro, resta legittimato all'appello nei soli casi in cui la pretesa punitiva abbia trovato essenziale realizzazione e con riguardo ad aspetti secondari della medesima (la qualificazione del fatto; la quantificazione della pena); mentre viene privato di analoga legittimazione nelle, di gran lunga piu' significative, evenienze in cui quella pretesa sia stata totalmente sconfessata. Il dubbio di legittimita' costituzionale si giustifica anche in relazione a quanto affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 363/1991 e ordinanze successive tra cui n. 421/2001) a proposito dei limiti oggettivi all'appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato (inappellabilita' delle sentenze di condanna che non modifichino il titolo del reato). Si e' infatti sottolineato che detta disciplina non contrasta con i canoni di ragionevolezza e non viola il principio della parita' in quanto: a) costituisce il «corrispettivo» in funzione premiale (unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento da parte dell'imputato, attraverso una opzione processuale che favorisce una piu' rapida definizione dei processi; b) concerne situazioni in cui ha comunque trovato realizzazione la pretesa punitiva, rimanendo del tutto intatta la potesta' di impugnazione delle sentenze di assoluzione. Le ragioni giustificative dei limiti, peraltro contenuti, alla facolta' di appello del pubblico ministero nel giudizio abbreviato, ritenute valide dalla Corte costituzionale, sono totalmente inesistenti nella nuova formulazione dell'art. 593 c.p.p. L'odierno divieto di appello contro le sentenze di proscioglimento, infatti, mutila le prerogative della parte pubblica in modo generalizzato e proprio nell'aspetto piu' saliente del suo interesse a impugnare, senza che sia individuabile alcun valore costituzionale in grado di bilanciare e di legittimare quel sacrificio. Inoltre, e come documentano i lavori preparatori della disciplina in oggetto, la ratio della riforma non risiede in finalita' di deflazione o di semplificazione processuale (che, semmai, avrebbero potuto consigliare limiti ai poteri di appello del p.m. avverso le sentenze di condanna, speculari a quelli posti all'appello dell'imputato contro il proscioglimento), bensi' in una declamata opzione di generale politica legislativa, secondo cui neutralizzare le possibilita' di reazione dell'organo dell'accusa, contro la sentenza assolutoria che ritenga ingiusta, risponderebbe a' un diritto dell'imputato a non essere riconosciuto colpevole se non dopo due giudizi di merito conformi. Sennonche' l'esigenza della c.d. «doppia conforme» sembra estranea alla nozione di «diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale» riconosciuto dalle Carte internazionali sui diritti dell'uomo, posto che nel documento in cui quel diritto e' piu' chiaramente enunciato (art. 2 del VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dell'uomo e delle liberta' fondamentali, fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984 e ratificato in Italia con legge. 9 aprile 1990, n. 98) viene espressamente prevista la possibilita' che un soggetto venga «dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento» ed in relazione a tale evenienza si contempla la necessita' che vengano garantiti: 1) il diritto di ricorrere in cassazione per errori in giudicando o in procedendo; 2) il diritto ad un ulteriore riesame di merito laddove detti errori siano stati accertati. Ritiene di conseguenza la corte, per concludere sul punto, che l'assetto delineato dalla nuova legge appaia in contrasto con il principio di equa considerazione delle parti processuali, in ragione del fatto che e' coessenziale alla fisiologica dialettica processuale che ogni parte del processo possa mantenere «le posizioni originariamente assunte e quindi, ove la sentenza non abbia dato ad esse piena soddisfazione, impugnare la decisione stessa; ed e' qui finche' si colloca l'appello principale» (Corte costituzionale, sentenza n. 280/1995). 2. - Violazione dell'art. 112 Cost. La Corte cost., pur avendo affermato (sentenza n. 177 del 1971) che il potere di impugnazione e' un estrinsecazione ed un aspetto dell'azione penale ed un atto conseguente al suo promovimento, ha tuttavia escluso (sentenza n. 363 del 1991; ordinanza n. 241 del 2001) che esso debba configurarsi in modo simmetrico rispetto al diritto di difesa dell'imputato. La stessa Corte costituzionale ha in seguito (sentenza n. 98 del 24 marzo 1994) precisato che «la configurazione dei poteri del pubblico ministero», ancorche' affidata alla legge ordinaria, potrebbe essere censurata per irragionevolezza se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all'assolvimento dei compiti previsti dall'art. 112 Cost.». La situazione-limite astrattamente prospettata dalla Corte cost. sembra essersi puntualmente inverata nella disciplina predisposta dall'art. 1 della legge n. 46/2006, che pone un limite generale ed indifferenziato alla possibilita' di appello del rappresentante della Pubblica accusa avverso le sentenze che abbiano rigettato la pretesa punitiva e gli impedisce di richiedere al giudice superiore il riesame dei fatti e delle valutazioni di merito poste a fondamento delle stesse. Nel nuovo statuto dei limiti oggettivi all'impugnazione del p.m. infatti, viene pregiudicato il nucleo essenziale del precetto di cui all'art. 112 della Costituzione, il quale, nell'attribuire al pubblico ministero l'esercizio dell'azione penale, configura un potere che legittimamente puo' cedere solo di fronte ad esigenze di preminente rilievo costituzionale (sentenza Corte cost. n. 98 del 1994). E cio' che non sembra ravvisabile nella disciplina di specie e' proprio la esigenza di tutelare un preminente valore costituzionale, posto che non appare condivisibile l'idea che la abolizione dell'appello contro le sentenze di proscioglimento costituisca una delle necessita' imposte dall'art. 24 della Costituzione e posto altresi' che, secondo il costante insegnamento della Corte costituzionale, il principio della «parita' delle armi» tra accusa ed imputato va modulato «non solo e tanto sull'identita' delle rispettive posizioni, quanto sul raccordo con l'esigenza di non comprimere poteri e facolta' dell'imputato riconducibili al precetto dell'art. 24 della Costituzione» (Corte cost., sentenza n. 94 del 1994). Parimenti non sussiste alcuna di quelle ragioni per le quali si sono ritenuti costituzionalmente legittimi i circoscritti limiti al potere di appello della parte pubblica nel giudizio abbreviato, comunque, ed allora, salvaguardato nelle possibilita' di reazione ad una sentenza di proscioglimento; limiti, vale ribadirlo, che hanno trovato la loro essenziale giustificazione «nell'obiettivo di una rapida e completa definizione del processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta: rito che - sia pure, oggi, per scelta esclusiva dell'imputato - implica una decisione fondata, in primis sul materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori dalla garanzie del contraddittorio;» (Corte costituzionale, sentenze n. 421/2001; 347/2002; 165/2003). E' infatti evidente che nel contesto della nuova disciplina la esclusione dell'appello della parte pubblica contro le sentenze di proscioglimento non e' piu' circoscritta a riti processuali che perseguano l'obiettivo del minor dispendio di tempo ed energie processuali (connotati essenziali del giudizio abbreviato - Corte costituzionale, sentenza n. 115 del 2001) e riguarda tutte le decisioni di proscioglimento emesse nel pieno rispetto della garanzia del contraddittorio nella formazione della prova. Sicche' ne deriva, in uno con il dubbio di illegittimita' che investe il principio di obbligatorieta' della azione penale, un ulteriore dubbio in relazione al fondamentale principio della parita' fra accusa e difesa, il quale, pur non comportando necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato (o del suo difensore), richiede comunque che la diversita' di trattamento risulti giustificata «sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia (Corte cost. sentenza n. 363 del 1991). Con la fondamentale conseguenza che «in ogni caso il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per essere conforme a Costituzione, dovra' trovare una ragionevole motivazione proprio in quella peculiare posizione o in quella funzione o in quelle esigenze appena richiamate (Sentenza Corte costituzionale n. 363 del 1991). 3. - Sul contrasto con l'art. 3 della Cost. Vanno poi segnalati i molteplici, e connessi, profili per i quali la disciplina dell'art. 593 nuovo testo c.p.p., e conseguentemente quella transitoria di cui all'articolo della legge n. 46/2006, violano altresi' i principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., introducendo ingiustificate disparita' di trattamento fra situazioni e posizioni processuali che invece (anche per i gia' richiamati principi di parita' tra le parti del processo ed obbligatorieta' dell'azione penale) debbono essere collocate sul medesimo piano, sia pure con la ovvia considerazione delle finalita' che ne contrassegnano i rispettivi ruoli. La previsione dell'appellabilita' da parte del pubblico ministero delle sentenze di condanna e la pratica eliminazione della facolta' di appellare le sentenze di assoluzione, infatti, configura un assetto processuale del tutto irragionevole: si autorizza la parte pubblica a proporre impugnazione quando la pretesa punitiva e' stata accolta e nel contempo si vieta simile legittimazione nella diversa e piu' significativa ipotesi in cui detta pretesa punitiva sia stata totalmente rigettata. Si tratta di un profilo di manifesta incostituzionalita' gia' rilevato dal Presidente della Repubblica nel messaggio di rinvio alle Camere del 20 gennaio 2006, in cui testualmente si osserva «la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa della disorganicita' della riforma, fa si che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibilita' con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo... Un ulteriore incongruenza della nuova legge sta nel fatto che il pubblico ministero totalmente soccombente non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta.». La violazione dei suddetti principi costituzionali (112 e 3 Cost.) appare ravvisabile anche in relazione a quella parte della nuova disciplina che contempla un'ipotesi residuale di appello contro la sentenza di proscioglimento da parte del pubblico ministero (e dello stesso imputato: ma e' superfluo insistere sulla residualita' di tale evenienza) per il solo caso in cui, successivamente al giudizio di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove e queste appaiano decisive (art. 593, comma 2, nuovo testo, che richiama a tale fine la categoria delle prove che, a mente dell'art. 603 comma 2, giustificano la rinnovazione del dibattimento in appello). Tale ipotesi - introdotta dal Parlamento solo in sede di seconda approvazione della legge, a seguito del rinvio del primo testo per «palese incostituzionalita» da parte del Presidente della Repubblica - non ha nulla a che vedere con l'appello inteso quale «gravame nel merito», e mutua i suoi lineamenti costitutivi dallo schema della revisione, con la particolarita' di applicarsi solo nel caso (certo di non frequente incidenza statistica) in cui le nuove prove sopravvengano o siano scoperte entro il termine accordato alla parte per impugnare la sentenza (quindici, trenta o massimo 45 giorni a seconda della celerita' del giudice nella redazione della motivazione: artt. 544 e 585 c.p.p.). Ed e' appunto in tale limite massimo che si coglie il carattere discriminatorio della norma, ove si rilevi che il proscioglimento rimarra' del tutto insindacabile nel merito, benche' in ipotesi affetto dal piu' grave errore di giudizio sulle prove preesistenti, qualora nessuna nuova prova venga ad aggiungersi ad esse ed anche nel caso in cui una determinante prova di accusa, presente nel compendio istruttorio, sia stata del tutto trascurata (in cio' si registra addirittura un arretramento rispetto a quanto consentito, alla luce di recenti e condivisibili orientamenti del giudice di legittimita', nell'ambito del giudizio di revisione). 4. - Violazione del principio della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, ultima parte, Costituzione). Resta da osservare che i profili di incostituzionalita' sin qui esaminati non possono dirsi in alcun modo esclusi dal fatto che al pubblico ministero e' pur sempre consentito ricorrere per cassazione contro il proscioglimento, ed anzi - per effetto della gia' richiamata riformulazione delle lett. d) ed e) dell'art. 606 p.p. - in termini piu' ampi che in passato. In primo luogo va rilevato che la nuova formulazione dell'art. 606, per quanto indubbiamente segni un tendenziale ampliamento dei vizi deducibili col ricorso per cassazione, configura pur sempre un mezzo di impugnativa «a critica vincolata»: laddove invece l'appello propriamente detto e' per definizione un mezzo di gravame a critica libera, atto a investire la sentenza nella sua eventuale intrinseca ingiustizia e nei piu' ampi limiti disciplinati dall'art. 597, comma 1, c.p.p. Inoltre, se anche per assurdo si potesse sostenere che il trasferimento dalla sede dell'appello a quella del ricorso per cassazione non ha intaccato le possibilita' di critica del p.m. contro la sentenza di primo grado, si sarebbe comunque in presenza di un significativo dubbio di illegittimita' costituzionale, sotto il profilo della violaziane del principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111, comma 2, ultima parte, Cost.. Questa corte non ignora le generali opzioni processuali che sono alla base della disciplina introdotta dalla legge n. 46 del 2006, che traggono origine dalla piu' volte segnalata anomalia che caratterizzava il previgente sistema, ove era consentito al giudice di gravame di ribaltare la decisione di proscioglimento maturata ed emessa nel puntuale rispetto dei principio di oralita' ed immediatezza. Anomalia incisivamente sottolineata in una recente decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, ove si auspicava la necessita' di «ristrutturare sapientemente il giudizio di appello, secondo cadenze e modalita' tali da precludere a quel giudice (che di regola rimane estraneo alla formazione dialettica della prova) di ribaltare il costrutto logico della decisione di proscioglimento dell'imputato, all'esito di una mera rilettura delle carte del processo e di un contraddittorio dibattimentale ex actis. Nel senso, cioe', di qualificare in questo caso l'appello, ove non si concluda con la conferma dell'alternativa assolutoria, come giudizio di natura esclusivamente rescindente, cui debba seguire un rinnovato giudizio .. sul merito della responsabilita' dell'imputato, modulato sui binari tracciati dalla sentenza di annullamento» (Cass. Sezioni unite, sent. 45276 del 24 novembre 2003 (ud. 30 novembre 2003). La disciplina predisposta, pero', e' andata molto oltre e si presta a significativi dubbi di legittimita' costituzionale; non solo per il fatto di avere sconvolto la geometria dei limiti del sindacato di legittimita', come imposto dalla Costituzione e disegnata dal nuovo codice di rito, ed avere conseguentemente compromesso l'armonico dispiegarsi nel sistema processuale della funzione nomofilattica attribuita alla suprema Corte (con conseguente dubbio di legittimita' costituzionale anche in relazione all'art. 111, comma 7, Cost.); ma anche e soprattutto perche', snaturando la conformazione del giudice di legittimita' e trasformandolo in un sostanziale giudice di merito con competenza estesa all'intero territorio nazionale, la nuova legge ha creato le basi perche' dinanzi a questo giudice confluiscano, con la marginale eccezione delle nuove prove sopravvenute e decisive, tutte le impugnazioni avverso sentenze di proscioglimento. Cio' comportera' un ineluttabile aumento delle pendenze dinanzi alla Suprema Corte ed un altrettanto ineluttabile aumento dei tempi di definizione dei processi; eventi, entrambi, direttamente conseguenti alla nuova disciplina e che non si sarebbero prodotti nel caso il legislatore avesse attuato in modo piu' ragionevole l'auspicio sopra indicato (rimodulando i caratteri del giudizio di gravame e prevedendo, in caso di mancata conferma della alternativa assolutoria, un aumento delle ipotesi di rinvio del processo al giudice di primo grado o l'obbligatorio rinnovo del dibattimento in appello sul tipo di quanto previsto in caso di erronea dichiarazione di estinzione del reato o di difetto di una condizione del procedere). In secondo e connesso luogo, con la modifica in questione si e' venuto a istituzionalizzare uno schema processuale che, in caso di annullamento del proscioglimento di primo grado, e tenuto conto del carattere solo «rescindente» del ricorso di legittimita', consentira' non meno di cinque gradi di giudizio (primo grado; ricorso per cassazione del p.m.; nuovo primo grado; appello e ricorso per cassazione dell'imputato contro l'eventuale condanna), in un sistema che non richiede costituzionalmente neppure il secondo grado di merito ed impone, per contro, di cadenzare i tempi processuali in modo da consentire la definizione della regiudicanda in tempi ragionevoli. La negativa incidenza di una siffatta moltiplicazione dei gradi di giudizio sulla ragionevole durata del processo e', poi, accentuata dal fatto di accompagnarsi al rischio di un'ennesima ingiustificata lesione degli interessi pubblici e privati lesi dal reato. Essa,infatti, comporta per definizione un aumento della possibilita' di prescrizione del reato, posto che il nostro ordinamento, a differenza di altri, non prevede un pieno effetto interruttivo delle impugnazioni dell'imputato sul tempo necessario a prescrivere. E cio' a maggior ragione alla luce della recente modifica della disciplina di cui agli artt. 157 ss. c.p., operata con la legge 5 gennaio 2005 n. 251, della quale non poteva non tener conto il legislatore del febbraio 2006, proprio ai fini del rispetto del canone costituzionale da ultimo invocato. Ne deriva, di conseguenza, un ulteriore dubbio sulla costituzionalita' delle nuove norme, posto che al principio della ragionevole durata del processo arrecano un indubbio vulnus «le norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza, non essendo in altro modo definibile la durata ragionevole del processo se non in funzione della ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso e ne determinano i tempi» (Corte cost., sentenza n. 148 del 12 aprile 2005 (4 aprile 2005). Contrasto con l'articolo 111, comma 7, Cost. Le osservazioni sopra esposte introducono un nuovo profilo di illegittimita' costituzionale, consistente nella violazione, da parte della norma qui contestata (art. 1 legge n. 46/2006), del principio generale ricavabile dall'art. 111, comma 7, della Carta fondamentale in materia del ricorso alla Corte suprema di cassazione. Il sistema previgente contemplava, in effetti, oltre all'appello, la facolta' (per l'imputato e) per il,ubblico inistero di ricorrere immediatamente per cassazione contro la sentenza resa in primo grado (art. 569, comma 1 c.p.p.). Si trattava di una facolta' poco praticata in concreto, la cui previsione poco o niente toglieva alla regola che vedeva nell'appello il mezzo «tipico» di reazione dell'accusa avverso le pronunce di proscioglimento. E, soprattutto, si trattava di una facolta' ragionevolmente esclusa dalla legge (art. 569, comma 3, c.p.p.) ogni qualvolta il ricorrente lamentasse una delle violazioni previste alle lettere d) ed e) dell'art. 606, comma 1, c.p.p., ossia deducesse la mancata assunzione di una prova decisiva oppure la mancanza o la manifesta illogicita' della motivazione della sentenza. In tali ipotesi era infatti prevista la conversione del ricorso in appello, poiche' si riteneva che il giudice di merito di secondo grado fosse, sotto ogni profilo (anche per «specifica formazione professionale»), il piu' adatto a valutare irregolarita' comportanti la parziale rinnovazione dell'istruzione dibattimentale o l'integrazione della parte motiva della pronuncia del giudice a quo. Divenuta regola quella che era l'eccezione, non ci si puo' esimere dall'interrogarsi circa la congruita' del mezzo al fine anche sotto il profilo del rispetto dell'art. 111, comma 7, Cost., dal momento che: da un lato, non e' certamente piu' sostenibile - quantunque il citato art. 569, comma 3, non sia stato modificato dalla legge n. 46/2006 - che il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di proscioglimento possa essere limitato nei vizi denunciabili, stante l'impossibilita' della sua conversione in un mezzo di impugnazione (l'appello, appunto) non piu' ammesso; dall'altro, la possibilita' che la Corte di cassazione, divenuta giudice unico delle sentenze di proscioglimento, sia chiamata a «rivalutare» le risultanze probatorie, o ad integrare la motivazione della sentenza anche con riguardo a specifici atti, appare in stridente contrasto con il ruolo di ultima e suprema istanza giurisdizionale» che caratterizza detto giudice [cfr. Corte cost. (ord.), 5 maggio 1983, n. 131, in Giurspr. costit., 1983, 1, 787]. Non sembra affatto contraddire la tesi qui sostenuta - tesi che ha un illustre punto di riferimento nel messaggio in data 20-1-2006, con cui il Presidente della Repubblica ha restituito alle Camere il testo del disegno di legge poi divenuto la novella n. 46/2006 - quanto a suo tempo affermato dalla Consulta a proposito delle funzioni del giudice di legittimita'; ossia non essere in contrasto con la Costituzione, e segnatamente con il disposto dell'art. 111, comma 2, di questa (secondo il testo anteriore alla riforma del 1999), che alla suprema Corte romana siano affidati compiti ulteriori rispetto a quelli «che tradizionalmente (...) e necessariamente la caratterizzano, consistenti nel giudicare dei ricorsi «per violazione di legge» avverso le sentenze (...)» (Corte cost., 12/19 giugno1974, n. 184, in Giust. pen. 1974, I, 421). La suddetta pronuncia della Corte costituzionale riguarda(va), infatti, una modifica apportata nel 1974 all'art. 538 dell'allora vigente codice di rito penale, in materia di rettificazione degli errori non determinanti annullamento. In tal caso, invero, il giudice delle leggi aveva «salvato» le funzioni correttive di merito attribuite alla Cassazione, ma si era trattato di un'ipotesi del tutto marginale, in cui era comunque escluso che si potessero «assumere nuove prove diverse dall'esibizione di documenti» (art. 538, ult. comma, c.p.p. 1930): un'ipotesi, insomma, neppure paragonabile, per importanza e «impatto» sul sistema, al ruolo di giudice (anche) di merito che il supremo Collegio si trovera' a ricoprire una volta trasformato - ex art. 2, legge n. 46/1006 - in giudice unico ed esclusivo delle rimostranze contro le sentenze liberatorie di primo grado. In definitiva, ad avviso di questo giudice, dalla natura della Corte suprema di cassazione quale supremo ed ultimo presidio contro le possibili violazioni di legge ascrivibili alle sentenze e ai provvedimenti in materia di liberta' personale dei giudici di merito (art. 111, comma 7, Cost.) non deriva giocoforza che alla medesima non possano essere attribuite anche funzioni diverse, che comportino la necessita' di esaminare parte degli atti del procedimento. Siffatta «deviazione», tuttavia, deve essere ragionevolmente contenuta e non deve alterare in misura significativa la struttura dell'istituto del ricorso di legittimita'. Ebbene, la ragionevolezza, particolarmente in punto di efficacia, di un sistema del genere a fronte di quello antecedente, che consentiva al p.m. di adire il superiore giudice di merito (la Corte di appello) per far valere l'ingiustizia della decisione assolutoria, si commenta da se'; soprattutto ove si rifletta sulle conseguenze, si ribadisce, dell'accentramento in un unico giudice di cause che, avendo come base conoscitiva l'intero fascicolo processuale, possono anche comportare la necessita' di «rileggere» ab imis fundamentis gli atti danti causa del vizio denunciato.